Gianluca Veltri. Voci di scrittori

Gialuca Veltriscrittore, giornalista culturale, musicista, vive e lavora a Cosenza. La sua scrittura sobria, tersa e ricca di profonde risonanze si fonde con luoghi lontani dalla frenesia del mondo, canzoni che diventano elementi narrativi e sentimenti delicati e taglienti che uniscono e separano persone e generazioni diverse. Con la Ferrari Editore ha pubblicato il romanzo L’ODORE DELL’ARRIVO.

10 DOMANDE //L’INTERVISTA

Il tuo primo ricordo legato a un libro? Me ne vengono in mente quattro: un piccolo libro, con la copertina rigida rossa, di uno scrittore forse svizzero, forse francese, dal titolo Gianluca perseguitato, pubblicato poco prima che nascessi, al quale forse devo il mio nome. Poi un grande albo degli Antenati, The Flintstones, pieno di colori e profumatissimo. Infine, Mary Poppins e Operazione gatto, due volumi che mi sembrarono meravigliosi e inaccessibili, regalati di ritorno dall’università da mio fratello a mia sorella, tra miei pianti inconsolabili, perché non erano stati regalati a me.

Cosa ti ha spinto a scrivere e quando hai iniziato? La prima spinta a scrivere è stata la lettura. Ho sempre letto molto, dapprima fumetti, poi soprattutto polizieschi. M’indusse a scrivere, da ragazzino, l’emulazione dei romanzi gialli di Ellery Queen, William Irish, John Dickson Carr, Patrick Quentin. Scrissi un giallo tremendo, sulla Olivetti 22 di mio padre, verso i dieci-undici anni, dal titolo, se non ricordo male, Il passato ritorna. Un manoscritto per fortuna andato irrimediabilmente perduto. La mia scrittura è diventata poi applicata, giornalistica, funzionale. Solo più tardi sono passato, o forse tornato con una consapevolezza diversa, a un altro tipo di attitudine.

Da dove trai ispirazione per le tue storie? Come funziona il tuo processo creativo? La mia scrittura è un dialogo incessante tra dentro e fuori, tra me e il mondo, tra particolare e universale. È un gioco di vasi comunicanti, di risonanze e di rintocchi. Quando vedo o sento o leggo o ricordo qualcosa che fa scoccare dentro di me una nota, quella è la scintilla di un’ispirazione: di solito s’intona con qualcosa che è, o era già, dentro di me. Da qualche tempo ho capito che non vanno perdute certe intuizioni che arrivano senza avvisare, che per anni ho puntualmente tralasciato e dimenticato; così adesso annoto tutto in un foglio elettronico di appunti sul cellulare. So che, prima o poi, quell’intuizione servirà, tornerà, troverà la sua assonanza con altre note. La risonanza non è un semplice unisono, sarebbe banale; non si tratta di una fotocopia. Deve stabilirsi un corto circuito più profondo, che non necessariamente salta agli occhi. In L’odore dell’arrivo il protagonista-narratore stabilisce una risonanza emotiva tra gli ultimi giorni della madre e la tragica fine di Brian Jones, il primo chitarrista dei Rolling Stones. Niente di più lontano tra questi due personaggi, eppure…

Hai un percorso artistico ampio su due strade, la scrittura e la musica, che fai convergere in reading live, creati ad hoc. Nella scrittura, la musica può offrire nuove possibilità di osservazione della realtà? Il mio percorso è a più strati, tortuoso, e adesso mi prendo la libertà e il piacere di mettere a frutto questa tortuosità, coniugandola in una complessità finalmente convogliata dentro un unico alveo, che mi auguro risulti interessante. Sono stato un bambino canterino, poi chitarrista autodidatta, quindi giornalista e critico musicale. Poi la mia scrittura ha chiesto con forza di uscire dall’ambito di un protocollo giornalistico: sentivo la necessità di allargare il mio approccio, cercavo una mia voce e la musica forse mi ha aiutato a trovarla. Le canzoni ci accompagnano continuamente, c’è una musica che gira intorno a noi e si annida dentro di noi, che non solo è colonna sonora ininterrotta, ma spesso interviene contribuendo a fabbricare storie, situazioni, ricordi. Per questo motivo nelle presentazioni accosto all’elemento parlato quello musicale: con le canzoni arrivo a dire quello che con le parole a volte non riesco a comunicare compiutamente. In questo modo, peraltro, le presentazioni diventano dei piccoli show, anche più piacevoli per chi assiste, meno verbose, meno prevedibili.

Il tuo romanzo è attraversato da diverse canzoni. C’è un’affinità che puoi riconoscere tra la musica che ascolti e il tuo stile di scrittura? Mi piace pensare che nella mia scrittura ci siano una ritmica e una musicalità che io avverto mentre scrivo, che mi accompagnano, e che sono diverse a seconda di quello che sto scrivendo. Per esempio, in L’odore dell’arrivo, l’episodio della visita al cimitero inglese in cui è sepolto il cantante Nick Drake, quella in cui il narratore deposita sulla tomba una foto formato tessera di Nonno Alce, è stata scritta con la musica di Nick Drake nella testa: chitarre acustiche, archi, prati inglesi. Non so se la prosa poi rispecchi queste immagini, ma il connubio dento di me si era instaurato. Nel capitolo invece in cui si rievocano momenti dell’adolescenza repressa del protagonista e del suo rapporto col padre, la musica degli Who era asse portante della scrittura: la rabbia e il senso di rimpianto dovrebbero essersi travasate nelle pagine, se l’alchimia ha funzionato.

Quando scrivi ascolti musica? Se lo fai, quanto influenza il ritmo della pagina? Non c’è una regola fissa, non sono disciplinato. Posso scrivere tutti i giorni per settimane, e poi non scrivere niente per mesi. Normalmente mi metto a scrivere quando sono attraversato da un ripensamento. Nella scrittura riverso la mia parte più malinconica, quella che ha a che fare con i conti che non tornano. Parafrasando Guccini, quando sono completamente in pace con me stesso e col mondo, quando i conti sono in pari e mi sento appagato e sereno, difficilmente avverto il bisogno di scrivere. Allora, quando mi siedo a tavolino, a volte può servirmi l’accompagnamento di un disco o di una canzone che ha fatto scoccare la scintilla. In questo caso, sia l’ascolto sia la scrittura sono molto emotivi, immersivi, travolgenti. Dopo, mi chiedo se sia stato davvero io a scrivere le cose che ho scritto e, quasi sempre, ritengo necessario un robusto lavoro di riscrittura, perché per me asciugare è una parte importante del lavoro. Altre volte, invece, quando la scrittura è più rilassata e controllata, l’ascolto non è immersivo, ma soltanto di accompagnamento per così dire esterno, di complemento.

L’altopiano silano, l’Ovest dei pionieri, l’Argentina. Sono alcuni dei luoghi richiamati nel tuo romanzo. Il senso di appartenenza al luogo, la geografia delle storie e i posti in cui accadono: quanto tutto questo è importante per chi scrive? I luoghi sono importantissimi. Per me scrivere è anzitutto vedere. La componente visiva e spaziale è essenziale quanto quella temporale. Il termine arrivo, nel titolo del mio romanzo, è l’arrivo in un luogo, nella fattispecie l’arrivo del narratore sull’altopiano della Sila, che è il suo luogo del cuore e che rappresenta il cuore geografico del romanzo. Nell’arcipelago della memoria il posto in cui le cose ci sono accadute è cruciale. Ma sono cruciali anche la distanza, la nostalgia per l’altrove: il mio protagonista fantastica sui luoghi nei quali lui non è: d’estate il mare, mentre lui è in montagna; d’inverno la montagna, mentre lui è in città; in generale i luoghi lontani, la Mongolia, il Cile, o mai visitati. Vive immerso nella kaukokaipuu, un termine che ha suscitato una certa curiosità tra i lettori. Ma l’interesse per i luoghi non è necessariamente senso di appartenenza. L’appartenenza è un concetto che non mi piace molto, perché presuppone spesso una contrapposizione, una divisione, uno schieramento. Preferisco affezione ai luoghi.

Un libro che ti piace molto e che avresti voluto scrivere tu. Beh, sono davvero tanti… rimaniamo sull’attualità, altrimenti potrei dirti l’Iliade o Delitto e castigo o Alla ricerca del tempo perduto! Allora, in tempi relativamente recenti mi è piaciuta molto la Trilogia della pianura di Kent Haruf (Canto della pianura, Crepuscolo, Benedizione) e non mi sarebbe affatto dispiaciuto se avessi scritto io anche uno solo dei tre volumi.

Perché leggere fa bene? Come dice Woody Allen, si legge anche «per legittima difesa»: si diventa più liberi, attraverso la fantasia, l’istruzione, l’indipendenza intellettuale. Leggere fa bene all’anima. Un libro sul comodino, anche più di uno, mi rende felice, è come assicurarsi di avere il grano in cascina o il pane nella credenza. Il mio comodino non potrebbe mai essere sgombro di libri. Leggere è necessario, è nutrimento, per vivere altre vite oltre alla propria, per viaggiare in altri mondi, per decifrare il mondo, capire se stessi e gli altri, per riconoscersi nelle storie che leggiamo e aggiungere tasselli alla propria identità; a volte anche solo per evadere, fantasticare, essere intrattenuti. Leggere è entrare in un mondo che è tutto nostro e contemporaneamente è del mondo intero. Ogni lettura è un viaggio di scoperta e di avventura.

Tre aggettivi per definire L’odore dell’arrivo, il tuo ultimo romanzo. Ne scelgo tre che sono stati utilizzati da recensori e lettori: sorprendente, ipnotico, sinestetico. Bontà loro.