Antonella Perrotta. Voci di scrittori

Antonella Perrotta, laureata in giurisprudenza, nasce e vive in Calabria. Scrittrice dotata di un’ironia graffiante che attinge alla tragica comicità celata spesso tra le vicende giudiziarie e i grandi temi sociali. Suoi racconti sono presenti in volumi collettanei. Collabora, inoltre, con riviste e blog culturali. Con la Ferrari Editore ha pubblicato i romanzi GIUÈ e MALAVUCI.

9 DOMANDE //L’INTERVISTA

Il tuo primo ricordo legato a un libro? Avevo cinque anni. Frequentavo da pochi mesi la cosiddetta primina e stavo imparando a leggere e a scrivere. Era la vigilia di Natale. Mio padre legò al comignolo uno spago che reggeva un pacco con i doni e lo lasciò sospeso nella canna fumaria. A mezzanotte, salì in terrazza, recise lo spago e il pacco cadde giù con un tonfo fra la cenere. Io ero lì, di fronte al camino, ad attendere Babbo Natale. Credevo ancora nella magia. Quando aprii il pacco, rimasi delusa: non conteneva giochi ma libri illustrati. “Che Babbo Natale cattivo!” pensai. C’erano tre raccolte di fiabe, cinesi, russe, arabe Il mago di Oz, Le avventure di Tom Sawyer. e un volume da collezione, con le tavole di Mickey Mouse, di Walt Disney. Sono ancora custoditi da qualche parte in casa. Alla delusione iniziale seguì l’entusiasmo e il piacere della lettura e Babbo Natale non fu più cattivo, così come, da lì a poco, non fu più magico. In seguito scoprii Piccole donne e La piccola principessa. Con le vicissitudini della sfortunata Sara Crewe ho lavato gli occhi di lacrime e ho intuito inconsciamente il potere catartico delle storie ben raccontate.

Da dove trai ispirazione per le tue storie? Come funziona il tuo processo creativo? Mi piace chiamarlo guizzo creativo. Può nascere da uno stato d’animo, da una frase, da un evento o dalle fattezze o dall’espressione di uno sconosciuto incontrato per strada. Con Malavuci il guizzo l’ha portato il vento. Ha soffiato per una notte intera, a momenti ricordava un cicaleccio soffuso in altri, invece, un lamento cupo. Ho iniziato a scrivere la storia senza un canovaccio, è venuta fuori da sé e ha inglobato alcuni miei studi sull’epidemia spagnola, sui profughi in Calabria durante la Prima Guerra e anche il mio dissentire dall’ipocrisia sociale che produce discriminazione. Anche Giuè è venuto fuori da un guizzo, seppure la storia raccontata si fondi con un fatto storico realmente accaduto che ha richiesto diverse ricerche. Ecco, un guizzo creativo…

I tuoi stati d’animo del momento influenzano la tua scrittura? La parola in senso lato è espressione e comunicazione e riesco a esprimere e comunicare soltanto ciò che sento davvero.

Dove trovi l’ispirazione, se non riesci sequestrare una Musa? Lascio la Musa libera di andare e fare ciò che vuole. Nel frattempo, anch’io faccio altro e penso ad altro. Prima o poi, lei verrà. Senza che io la costringa o lo decida. Magari, rigenerata dall’assenza.

Hai scritto due romanzi radicati nel passato. Come ti poni nei confronti del passato e del futuro? Come li vivi? Ho molto rispetto del passato. È da lì che veniamo, è lì che si è formato il nostro presente e, sempre lì, troveremo le tracce del nostro futuro. Il tempo è un flusso continuo e non si può ignorare ciò che viene prima se si vuole vivere consapevolmente ciò che viene dopo. Essere proiettati nel domani e aperti al nuovo, com’è giusto che sia, non significa ignorare quello che ci ha preceduto. Anzi. Rielaborarlo, semmai, arricchendolo di nuove intuizioni, nuove conoscenze, nuova sensibilità. E, comunque, mi piacciono le storie, tutte, ma quelle che volgono lo sguardo indietro hanno qualcosa di magico, sanno di casa, di famiglia, di focolare, d’intimità.

Che cosa rappresenta per te la scrittura letteraria? Passione, bi-sogno di fuga, esigenza pedagogica, indagine interiore, lavoro parallelo? Con la scrittura mi ferisco e mi curo. Scarnifico, raschio fino in fondo, dapprima, e, poi, faccio ordine, razionalizzo, semplifico. Rappresenta un momento di tormentata lucidità. Placa la mia inquietudine innata, la risolve. Direi, allora, che ha un potere taumaturgico, salvifico. Credo che per questo affronto i temi dell’ingiustizia, giudiziaria e sociale, i drammi personali dell’individuo o della società. Provo a sviscerare ciò che sento, a denunciare ciò che avverto come ingiusto, crudele, malfatto, inopportuno, e condivido il mio sentire con chi legge. La condivisione è compartecipazione dà conforto, coraggio, speranza di miglioramento. Sotto questo punto di vista, la scrittura ha anche una valenza pedagogica, seppure io non abbia la presunzione di educare nessuno. Rivestire il tutto, poi, con una sana ironia aiuta tanto. A comunicare e a vivere.

Sei una scrittrice ma anche una brava performer dei tuoi testi. I tuoi reading sono sospesi tra gestualità vocale e musica. Che differenza c’è tra scrivere e mettere in voce un romanzo? La scrittura è un momento intimo, personale. Mettere in voce la parola scritta significa comunicare con qualcuno che ti sta guardando e ascoltando. Penso che, ove possibile, riunire più forme di comunicazione, verbale, musicale, visiva, renda la parola più forte. Come dire… arriva e prende in faccia, carezza o schiaffo, ma arriva e questo conta. E, comunque, mettere in voce un romanzo mi diverte e pure tanto.

Perché leggere fa bene? Perché fa pulizia. Sgombra il nostro pensiero, la nostra lingua, il nostro sguardo dai retaggi e dai luoghi comuni, rendendoci liberi di ragionare, parlare, vedere. E anche quando avremo dimenticato ciò che abbiamo letto, rimarremo comunque detersi e mondati. Un po’ come succede ai terreni decontaminati.

Tre aggettivi per definire il tuo ultimo romanzo. Ironico, spietato, terapeutico. Posso aggiungerne un altro? Sì, dai. Libero. E ora basta. Sono difficili queste domande 😅